
“Θάλασσα, θάλασσα” (cioè “Mare, mare”)!
Con questo grido Senofonte, comandante della sfortunata spedizione militare da lui stesso raccontata nella sua “Anabasi” (termine che letteralmente significa “Risalita”), descrive l’entusiasmo provocato dalla vista del mare in lontananza fra i superstiti dei circa diecimila mercenari greci partiti oltre un anno e mezzo prima per la Mesopotamia, al fine di combattervi una guerra non loro fra i due pretendenti al trono imperiale persiano.
La loro “non vittoria” nella battaglia di Cunassa, conclusasi sì con la sconfitta degli avversari, ma al tempo stesso con la morte di quello stesso Ciro che li aveva ingaggiati, li lasciò alla mercé dei nemici in mezzo a terre sconosciute e ostili, vittime delle intemperie e della mancanza di viveri, obbligandoli ad intraprendere un lunghissimo viaggio di ritorno verso casa attraverso quell’oceano di terra inospitale, perlopiù arida e montagnosa, che si estendeva dall’Anatolia centrale fino al Mar Nero.
Fra malattie, imboscate nemiche, bufere di neve e stenti d’ogni tipo la vista del mare apparve dunque a quei disperati come un miraggio indicante la tanto agognata fine delle loro sofferenze e la via del ritorno in patria.
Parallelamente, alle due del mattino del 12 ottobre del 1492, sulla caravella chiamata “Pinta” risuonò il grido del marinaio di guardia, Rodrigo de Triana: “Tierra, tierra!”, dopo quasi quaranta giorni di traversata di un oceano questa volta fatto di acqua salata, in mezzo alle bufere e con la prua puntata sempre verso ovest, cioè verso l’ignoto.
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La ricerca della “via breve per le Indie” era diventata da anni il chiodo fisso del genovese Cristoforo Colombo, uomo scontroso e solitario ma al tempo stesso dotato di grande carisma e fascino personale, nato lanaiolo e morto ammiraglio che, basandosi sui racconti dei marinai, sulle carte nautiche dell’epoca e sui detriti che di tanto in tanto spiaggiavano sulle coste delle Azzorre, s’era testardamente convinto che aldilà dell’immensa distesa d’acqua antistante le coste portoghesi si trovasse una terra che, essendo ancora sconosciuto il continente americano, fosse l’Asia.
Dopo aver inutilmente cercato d’indurre re Giovanni II del Portogallo a finanziargli l’impresa, il nostro ci provò una prima volta con i “Reyes Catolicos”, Isabella e Ferdinando, i quali sottoposero il suo progetto ad una commissione di studiosi che però lo bocciò.
La cocciutaggine tutta ligure di Colombo tuttavia non lo fece desistere, e a distanza d’un paio d’anni, grazie anche all’aiuto del vescovo Alessandro Geraldini, confessore personale della regina, riuscì a farle cambiare idea, ottenendo così il finanziamento di quell’impresa che, per i tempi in cui veniva tentata, era tanto ardita quanto gli attuali progetti d’inviare i primi uomini su Marte.
Alzate le vele al vento, il 3 agosto del 1492 le tre caravelle lasciarono il porto di Palos dirette alle Canarie, da dove poi avrebbero fatto il gran salto verso occidente, prendendo il largo circa un mese dopo dall’isola di Gomera.
La scelta di Colombo fu quanto mai felice, intesa com’era a sfruttare al meglio la spinta degli alisei, i venti che soffiando costantemente alle loro spalle avrebbero gonfiato le vele quadre di quei piccoli legni.
L’ammiraglio mantenne la rotta basandosi solo su calcoli astronomici eseguiti con l’ausilio d’un rudimentale sestante e di un astrolabio. Ben presto si trovò a combattere contro il nemico più insidioso: l’incertezza circa la loro destinazione e i dubbi sulla saggezza di quella scelta.
Col passare dei giorni, sempre uguali in quel deserto d’acqua spesso in burrasca, lo sconforto degli equipaggi crebbe fino a sfiorare l’ammutinamento, costringendo Colombo a falsificare il giornale di bordo per ridurre il numero di miglia quotidianamente percorse.
Anche i dissidi col suo secondo Martin Pinzon montarono fino ad un livello di guardia, finché il 7 ottobre un provvidenziale stormo di uccelli avvistati mentre volavano verso sud-ovest lo convinsero a seguirli, consentendo di lì a pochi giorni al marinaio di guardia di lanciare il grido tanto atteso.
Dopo il canto del “Salve Regina”, ecco dunque quei pionieri sbarcare dalle loro scialuppe per mettere piede, per la prima volta da parte di cittadini europei, sul continente americano, in un’isoletta che nella lingua degli indios locali si chiamava “Guanahanì”, poi ribattezzata da Colombo col nome di “San Salvador”.
L’impronta lasciata dall’ammiraglio su quella spiaggia ebbe forse la stessa importanza di quella impressa da Louis Armstrong sul suolo lunare, con buona pace di quanti oggi rimpiangono che ciò sia avvenuto e con furia iconoclasta ne abbattono le statue: la storia è un’automobile che non prevede la marcia indietro!