Se pochi sono coloro che post mortem furono insigniti del titolo onorifico di “Grande”, soltanto due personaggi poterono goderne già da vivi: lo zar Pietro II di Russia, che se lo attribuì per decreto, ed il re Federico II di Prussia, che invece fu chiamato così dai suoi sudditi, dopo che per primo il filosofo illuminista Voltaire, suo ammiratore seppure fra alti e bassi, aveva iniziato ad indirizzarsi a lui come “ Frédéric le Grand”.
Caratterialmente era un uomo burbero, cinico, sleale ed ingrato, tanto che dopo di lui l’espressione “lavorare per il re di Prussia” avrebbe significato darsi inutilmente da fare per qualcuno che prima se ne approfitta e poi ti scarica.
Strenuo assertore dell’assolutismo regio, perché convinto che “gli uomini sono tutti stupidi e cattivi”, nutriva però un democratico disprezzo nei confronti della razza umana nel suo insieme, senza distinzioni di classe, che si estendeva da re ed imperatori fino all’ultimo dei suoi soldati, tutti ugualmente considerati “cani”.
Eppure non aveva proprio nulla sotto il profilo fisico che potesse farlo apparire “Grande”: tarchiato, sudicio e trasandato nel vestire, odorava di tabacco, di cavallo e dei cani che aveva sempre addosso.
Quando nel 1740, all’età di 28 anni, salì sul trono della Prussia, essa non era altro che uno Stato piccolo ed arretrato, vassallo dell’Impero Asburgico, che non contava quasi nulla in Germania e tanto meno in Europa.
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Era governato dalla Casata degli Hohenzollern, che fin dal Quattrocento avevano ottenuto dall’Imperatore l’investitura prima a Markgraf (“margravi”) della Marca di Brandeburgo e poi il titolo di Sovrani di Prussia, che a quei tempi consisteva soltanto nella piccola enclave tedesca incuneata fra il mar Baltico, la Polonia e la Lituania avente come capitale la città di Koenigsberg, l’attuale Kaliningrad russa.
Federico Guglielmo, padre del nostro, passò alla storia come “il Re Sergente”. Fanatico dell’esercito, sempre in uniforme, rozzo e grossolano, aveva in odio tutto ciò che fosse cultura e raffinatezza, musica e salotti eleganti.
Gli piaceva starsene a far bisboccia con amici e commilitoni, bevendo e fumando.
Ai figli impartì un’educazione spartana, fatta di rimproveri, insulti e cinghiate tirate anche in pubblico. Il suo primogenito Federico lo temeva e odiava tanto, da augurarsi che “crepasse presto”, perché lui al contrario amava tutto quanto il padre disprezzava: i libri, la musica, le lettere classiche e la filosofia, incluse le opere degli illuministi francesi.
Perciò Federico Guglielmo lo considerava effeminato, molle ed irresoluto, tanto da piombargli spesso in camera non annunziato per verificare cosa stesse facendo e schiaffeggiarlo per un nonnulla davanti alla servitù.
Quando nel 1730 l’esasperato principe progettò di fuggire in Francia, il padre, venutolo a sapere, lo fece richiudere nella fortezza di Kustrin pensando seriamente a farlo condannare a morte per alto tradimento, ma poi finì col riservare questa sorte soltanto al suo complice, il giovane tenente Von Katte, probabile amante di Federico stesso, decapitato con obbligo per quest’ultimo di assistere al macabro spettacolo.
Costretto ad una durissima rieducazione forzata, Federico dovette oltre tutto sottostare a interminabili conversazioni col suo cappellano e seguire un corso d’amministrazione pubblica che gli avrebbe inculcato la sua proverbiale ed infine sottoporsi a continue e sfinenti esercitazioni militari.
Facendo buon viso a cattivo gioco, interiorizzò i propri sentimenti sino ed accettare di sposare la donna che il padre aveva deciso per lui: una principessa di Casa Brunswick da lui subito chiamata “la bestia”, perché goffa e maleducata.
Dopo aver trascorso con lei “come in un incubo” la prima notte di nozze, l’avrebbe relegata in palazzi sempre diversi dal suo, con obbligo di chiedergli udienza per iscritto nei rari casi in cui lo poteva incontrare, in un rapporto che ovviamente sarebbe sempre rimasto sterile.
In compenso, si dedicò anima e corpo all’attività militare, che gli piaceva per davvero e che durante il suo lungo regno gli avrebbe permesso di fare della Prussia un’enorme caserma, col più numeroso e temibile esercito continentale, forte di circa 180.000 soldati: una cifra enorme per un Paese di appena 5 milioni di abitanti.
Convinto che la Prussia dovesse espandersi territorialmente, nei primi 23 anni di regno avrebbe combattuto numerose guerre, sempre in qualità d’aggressore, vincendo un totale di tredici battaglie su sedici seppure partendo spesso da posizioni d’assoluta inferiorità numerica, tanto da guadagnarsi la fama d’invincibilità.
Ciò gli avrebbe permesso per i successivi vent’anni circa di vivere “di rendita”, non dovendo temere più nessuno e potendo così concentrarsi sulla necessarie riforme interne in campo giudiziario, legislativo, finanziario ed educativo, che avrebbero permesso alla Prussia di diventare uno Stato moderno, ricco e culturalmente all’avanguardia, specie in campo letterario e musicale , le discipline preferite da Federico.
Anticonformista e scevro da pregiudizi, non avrebbe esitato, lui ateo ma sovrano di un Paese luterano, ad accogliere nei suoi Stati i Gesuiti, ritenuti i migliori istitutori di quei tempi, quando furono cacciati da tutto il resto d’Europa.
Infischiandosene dei trattati e del diritto internazionale, si fidò sempre e soltanto del proprio infallibile “ fiuto” e fece grande uso del concetto di “Realpolitik”, perché “bisogna approfittarsi delle situazioni quando ci si trova in vantaggio”.
Così, vedendo in difficoltà la giovanissima Maria Teresa d’Austria, intenta a farsi riconoscere dalle corti europee come legittima erede del suo defunto genitore, l’Imperatore Carlo VI, le invase la Slesia, annettendosela con la paradossale scusa di “salvaguardarla da invasioni straniere”.
Alla morte della sua acerrima nemica, la zarina Elisabetta II di Russia, incantò a tal punto il nuovo zar Pietro III da riuscire a stringere con lui un’alleanza militare prima impensabile, che avrebbe messo in gravi difficoltà l’Impero Asburgico.
Morì, compianto da tutti i suoi sudditi, il 17 agosto del 1786, ma avrebbe dovuto aspettare per altri duecento anni circa, cioè fino al 1991, per vedere finalmente coronato il suo ultimo desiderio: essere sepolto nella nuda terra del parco del palazzo di Sans Souci, a Potsdam, accanto ai suoi adorati levrieri, sotto una semplice lastra d’ardesia ornata con delle patate, il tubero di cui introdusse la massiccia coltivazione nel suo Paese, sradicandone così la fame.