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La caduta di Costantinopoli: la conquista della capitale dell’Impero Romano d’Oriente

La caduta di Costantinopoli
“La piazza dell’Ippodromo a Costantinopoli” di Ippolito Caffi, 1843, Museo d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, Venezia

“Piangete, Cristiani, e lacrimate su questa grande distruzione. Martedì ventinovesimo giorno del mese di maggio dell’anno 1453 il figlio di Agar si impadronì della città di Costantinopoli”. Così una nenia popolare greca ricorda la data fatidica in cui, dopo circa cinquanta giorni d’assedio, il sultano Mehmet II decise di sferrare l’attacco finale, quello del “o la va, o la spacca” che avrebbe determinato la vittoria e la conseguente conquista della “seconda Roma”, o la ritirata definitiva degli assedianti.

La decisione era obbligata, perché persino il suo sterminato esercito composto da circa centosessantamila uomini (di cui la metà soldati ed il resto suddiviso fra cuochi e servitori) stava patendo le pene dell’inferno per la fatica, la perdita di tante vite umane, le difficoltà di rifornimento ed i focolai epidemici causati dal primo caldo estivo.

Non migliore era la situazione dall’altro lato della tripla cinta delle imponenti mura teodosiane, che da oltre mille anni proteggevano Costantinopoli. Un sempre più esiguo numero di difensori, ridotti a circa seimila uomini suddivisi fra greci, comandati dall’imperatore Costantino XI, e latini agli ordini del genovese Giustiniani Longo, oltre a combattere di giorno dovevano nottetempo rabberciare le numerose falle aperte nelle mura dall’incessante tiro dei pezzi d’artiglieria ottomani.

Fra le tante, la più preoccupante era quella creatasi in corrispondenza dell’avvallamento del fiume Lychus, nella parte centrale delle mura, tamponata alla meno peggio con una palizzata di fortuna eretta in fretta e furia col concorso di tutta la popolazione. Fu proprio lì che, all’una e trenta del mattino di quella tragica giornata, il sultano ordinò di concentrare il fuoco di tutte le sue bombarde, in mezzo ad un infernale fracasso causato dal rombo contemporaneo di corni, tamburi e cimbali.

Col loro passo cadenzato e in file ordinate, le truppe d’assalto si lanciarono in avanti, precedute dalla “carne da macello” costituita dai cristiani catturati durante le scorrerie dei corsari saraceni e poi fatti schiavi. Mehmet osservava attentamente le operazioni dall’alto, da una postazione sicura, ed incoraggiava i suoi col miraggio del ricchissimo bottino che avrebbero trovato dall’altra parte delle mura.

Nel frattempo i corpi dei caduti e dei moribondi andavano via via riempiendo il fossato alla stregua di un’orrenda piramide, della quale i sopravvenienti si servivano per raggiungere la sommità della palizzata, intanto che i difensori li bersagliavano con tiri di balestre, archi, colubrine e pignatte incendiarie.

Vista l’incertezza della situazione, Mehmet decise di ricorrere alla sua arma più devastante, il cosiddetto mostro di Urban”, dal nome dell’ungherese che l’aveva realizzato: un cannone lungo otto metri e pesante quasi cinquanta tonnellate che scagliava proiettili in pietra della circonferenza di 2,8 metri, da una tonnellata l’uno. Incurante del fatto di straziare anche molti dei suoi soldati, il sultano ordinò che con esso si aprisse un fuoco incessante mirando alla palizzata, fino ad aprirvi un varco che permettesse ad un primo manipolo di assedianti di penetrare in città.

cannone di urban
Ricostruzione del Mostro di Urban, il cannone utilizzato per abbattere le mura di Costantinopoli

Con la forza della disperazione e sapendo che in quei momenti combattevano per le loro vite, i difensori in un epico corpo a corpo riuscirono però a respingerli e a tamponare ancora una volta la falla, ma sul più bello accaddero due imprevisti che decisero le sorti della battaglia.

In primis, alcuni soldati greci usciti in avanscoperta, rientrando in città, dimenticarono di richiudere alle loro spalle la porta della postierla che avevano attraversato, così permettendo a qualche decina di ottomani di prendere di sorpresa i difensori, assalendoli alle spalle ed impadronendosi dello stendardo imperiale, per sostituirlo con quello del sultano. Inoltre, l’ammiraglio Giustiniani Longo, gravemente ferito, fu trasportato su una nave ancorata in rada, facendo però venire a tutti i suoi compagni il desiderio di mettersi in salvo anche loro e così scatenando un fuggi-fuggi generale.

Proprio in quel momento il sultano ordinò ai suoi giannizzeri di sferrare l’attacco finale: circa trentamila uomini come un fiume in piena si riversarono in città dalla breccia aperta nella palizzata ormai indifesa, travolgendo tutto e tutti, compreso l’imperatore Costantino, di cui da quel momento si sarebbero perse per sempre le tracce.

Iniziò allora un massacro indiscriminato a colpi di scimitarra, che non risparmiò niente e nessuno: uomini, donne, vecchi, bambini, preti, monache, tutti ormai erano in balia del nemico. Quante e quanti non furono trucidati all’istante, vennero ridotti in schiavitù o abusati sessualmente.

Non un solo angolo della città rimase intatto e mille anni di storia gloriosa ed opere d’arte furono devastati in poco più d’una mattinata, compresa la Cattedrale di Santa Sofia, vedendo la quale si narra che persino Mehmet abbia pianto pronunciando il seguente distico del “Libro dei Re”, scritto dal poeta epico persiano Firdusi con riferimento alla caducità della vita e della gloria terrena: “Il ragno sta di guardia alle porte del palazzo di Cosroe / il gufo chiama l’ora nel palazzo di Afrasigiab” .