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La presa di Alesia: breve cronistoria

vercingetorige
“Vercingetorige depone le armi ai piedi di Cesare” di Lionel-Noel Royer, 1899, Musée Crozatier, Le Puy-en-Velay, Francia

Il 26 settembre del 52 a.C. il fino ad allora indomito ed imbattuto Vercingetorige, re degli Alverni e capo di una federazione di tribù galliche, dopo aver indossato le sue armi migliori ed essere saltato in groppa al suo cavallo più bello, uscì dal suo accampamento e si avviò verso quello romano per compiervi un giro attorno a Giulio Cesare, che l’aspettava seduto.

Balzato giù dalla sella, così come ci narra Plutarco, “si sedette ai suoi piedi e stette tranquillo”, manco fosse un cagnolino.

Quella giornata di oltre duemila anni fa segnò il punto di svolta in favore dei Romani in quella che era stata la lunga guerra gallica, gettando le basi per quello che, di lì a poco, sarebbe diventato il più vasto e potente Impero di tutto l’Occidente.

A quel punto si giunse grazie alla straordinaria impresa costituita dalla conquista della mitica città di Alesia, che soltanto nel XIX secolo accurati scavi archeologici hanno scoperto trovarsi nei pressi del villaggio di Alise Sainte Reine, in Borgogna.

È Cesare in persona, nel suo “De Bello Gallico”, ad aver fornito a studiosi ed archeologhi indicazioni utili a rintracciare quella città per tanto tempo perduta: “Ipsum erat oppidum Alesia in colle summo admotum edito loco, ut nisi obsidione expugnari posse videtur” (cioè: “La stessa roccaforte di Alesia si trovava sulla cima di un colle, in un luogo abbastanza elevato, tanto che non sembrava possibile prendersi se non con un assedio”).

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Lassù, su quel cocuzzolo, s’era ritirato Vercingetorige con i circa 80.000 reduci dalla battaglia di Gergovia, conclusasi con una vittoria tattica, ma non decisiva, dei Galli sui Romani. A Cesare si presentò così un’occasione d’oro per prendersi la rivincita, cingendo d’assedio la città sino a far capitolare gli avversari per inedia.

Fece dunque erigere a tempo di record, tutt’intorno ai fianchi di quell’altura, un terrapieno sormontato da una robusta palizzata della circonferenza di circa 15 chilometri, intervallata da una serie di torri di guardia. In parallelo ad esso, sul lato a monte, fece scavare due fossati profondi circa sei metri e larghi quattro, di cui quello interno fu riempito d’acqua.

Appena fuori dal fossato esterno ordinò di scavare anche una serie di buche in fondo alle quali fece piantare cinque pali aguzzi, occultandone poi l’apertura con rami e foglie, in modo che chiunque ci cadesse dentro restasse mortalmente trafitto. Infine, proprio davanti a queste ultime, furono piantate al suolo otto file di bastoni lisci, appuntiti e poco sporgenti da terra, con lo scopo di azzoppare o infilzare cavalli e cavalieri nemici.

Prima che l’accerchiamento fosse completato, Vercingetorige ebbe giusto il tempo di chiedere aiuto alle diverse tribù galliche, tanto che una coalizione di Edui, Sequani, Senoni, Parisi, Caduci ed altri popoli fu frettolosamente messa insieme sotto il comando di Vercassivellano, cugino di Vercingetorige.

Saputolo, Cesare fece realizzare a tempo di record un’altra serie di fortificazioni identiche, ma appena più a valle, creando così una striscia di terreno protetto e sicuro, all’interno del quale raccogliere le sue dieci legioni (forti di cinquantamila uomini circa) con viveri sufficienti per un mese sapendo che loro, i Romani che assediavano Alesia, s’apprestavano ad essere a loro volta assediati.

In attesa dei soccorsi, tutte le sortite tentate da Vercingetorige finirono per infrangersi sulle fortificazioni avversarie, con perdite ingentissime, mentre le scorte alimentari si riducevano sempre di più, al punto che i più disperati iniziarono a nutrirsi dei cadaveri dei caduti.

Né migliore fortuna ebbero i Galli del numeroso esercito soccorritore i quali, dovendo attaccare da una posizione a valle, quando giungevano nei pressi delle fortificazioni romane erano già sfiniti per la corsa all’insù, diventando facili prede delle sortite avversarie coordinate da Cesare che, da un punto d’osservazione sopraelevato, muoveva le sue pedine come un abile giocatore di scacchi.

I lanci delle catapulte e delle balestre romane, micidiali armi belliche di cui i Galli erano sprovvisti, fecero il resto, consentendo ai Romani per due volte di respingere i poderosi assalti nemici. Il terzo tentativo fu sferrato dal fior fiore dell’esercito gallico, con la chiara consapevolezza da entrambe le parti che lì si sarebbero decise le sorti dello scontro.

Cesare caricò i suoi legionari, dicendo che il frutto di tutte le precedenti battaglie si poteva cogliere (o perdere) “in eo die atquehora” (in pratica: “lì ed ora”).

Impavido, indossando il suo mantello rosso, si portò in prima fila e con la sua sola presenza infuse un coraggio straordinario ai legionari, che si batterono con le spade in furiosi corpo a corpo, manco fossero dei gladiatori, finché riuscirono a volgere i fuga i nemici, inseguiti dalla cavalleria che ne fece strage.

Il giorno dopo, a Vercingetorige non restò che prendere atto della disfatta e consegnarsi al vincitore, per essere miseramente condotto a Roma, esibito al popolo come una fiera in catene e infine rinchiuso nel terribile carcere Mamertino, dove sarebbe stato crudelmente strangolato.

Cesare ancora una volta aveva trionfato: la Gallia era finalmente sottomessa e doma.