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Nerone e il grande incendio di Roma

Nerone e il grande incendio di Roma

Nella notte fra il 18 ed il 19 luglio del 64 d.C. Roma fu devastata dal più grande e famoso incendio della sua lunga storia.

Il forte vento caldo che soffiava sull’Urbe propagò con impressionante rapidità, nel dedalo di strette viuzze e case ammassate disordinatamente le une sulle altre tutto attorno al Circo Massimo, le fiamme inizialmente divampate nei depositi di materiali infiammabili (legno, olii, lana) che costeggiavano la riva sinistra del Tevere.

In poche ore il colossale rogo si estese al Palatino, al Celio ed all’Esquilino. Sarebbe durato ininterrottamente sette giorni e sette notti, causando la distruzione totale o quasi totale di dieci dei quattordici quartieri in cui Roma era divisa, la devastazione della maggior parte delle “insulae” cittadine (le case popolari di quei tempi) e mietendo un gran numero di vittime, calcolabile forse in decine di migliaia di persone su una popolazione che allora oltrepassava il milione. Immense furono anche le perdite sotto il profilo artistico e culturale.

Sebbene un certo revisionismo storico in questi ultimi decenni tenda a scagionarlo, a ridurne le responsabilità o addirittura a rivalutarne la figura, gli autori classici (Tacito, Svetonio e Cassio Dione in particolare) non ebbero dubbi nell’individuare nell’imperatore Nerone il responsabile di tale immane tragedia, perché “quasi offesus deformitate veterum aedeficorum” (“quasi disgustato dalla bruttezza dei vecchi edifici”), lui che si riteneva un artista tanto raffinato.

Gli stessi storici aggiungono che, contemplando le fiamme dall’alto di una torre, Nerone avrebbe cantato compiaciuto i versi di un poema che lui stesso stava componendo sulla distruzione di Troia.

In quella tragica nottata, l’imperatore si trovava ad Anzio, dove s’era recato per sfuggire alla canicola imperversante in città o forse, più probabilmente, per allontanarsi dal “luogo del crimine”, in modo da sviare i sospetti sulla sua persona.

Appena avvertito del disastro era però tornato in città per organizzare il coordinamento dei soccorsi insieme al fido Tigellino, allora prefetto del pretorio che, in qualità di ex-prefetto dei “vigiles”, ben conosceva le problematiche legate agli incendi.

Tuttavia, vista l’impossibilità d’intervenire direttamente sulle fiamme, ormai fuori controllo, si decise di contenerle creando loro attorno il vuoto con la demolizione mirata di certi edifici e altri incendi più piccoli appiccati in luoghi strategici.

Nel caos generale, in fiamme ci finirono anche due residenze di Nerone stesso: quella sul Palatino e la “Domus Transitoria”, terminata da poco.

Per tacitare le voci che continuavano ad accusarlo di quella tragedia, un colpevole dell’accaduto Nerone doveva pure individuarlo, ed ecco allora che gli venne in mente una piccola comunità, molto sospetta agli occhi dei Romani “bene” di allora: quella dei primi cristiani.

Costoro infatti si rifiutavano di riconoscere il “pantheon” tradizionale romano e pertanto furono accusati non di aver direttamente appiccato il fuoco, bensì di aver provocato con la loro “impietas” (in senso letterale: mancanza di religiosità, empietà) la collera degli dei e la loro terribile vendetta.

Così, due o trecento individui considerati, a torto o ragione, come appartenenti a quella che allora era ritenuta “la setta cristiana” furono arrestati e condannati al supplizio.

L'”artista” Nerone, conscio del fatto che i suoi sudditi amavano gli spettacoli, non volle perdere l’occasione per trasformare la loro morte in uno show.

A decine furono radunati nell’anfiteatro e rivestiti di pelli di leone o orso, per poi essere fatti sbranare da un branco di mastini inferociti. Altri, ricoperti di pece, furono crocifissi e dati alle fiamme per rischiarare come torce l’oscurità della notte.

Fu la prima delle tante persecuzioni che i martiri (“testimoni”, nel senso etimologico del termine) di Cristo dovettero soffrire nella loro storia.